Giordano Bruno
Persona
filosofo
Nola, Napoli / , Roma
Biografia
Ritratto di Giordano Bruno
È lo stesso Bruno, negli interrogatori cui fu sottoposto durante il tragico processo che segnò gli ultimi anni della sua vita, a dare le informazioni sui suoi primi anni. «[...] Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni, della città de Nola vicina a Napoli dodeci miglia, nato et allevato in quella città [...]»,[3] e più precisamente nella contrada di San Giovanni del Cesco, ai piedi del monte Cicala, forse unico figlio del militare, l'alfiere Giovanni, e di Fraulissa Savolina, nell'anno 1548 - «per quanto ho inteso dalli miei»[4] - e fu battezzato col nome di Filippo, in onore dell'erede al trono di Spagna Filippo II.
La sua casa - che non esiste più - era modesta, ma nel suo De immenso ricorda con commossa simpatia l'ambiente che la circondava, l'«amenissimo monte Cicala»,[5] le rovine del castello del XII secolo, gli ulivi - forse in parte gli stessi di oggi - e di fronte al Vesuvio che egli, pensando che oltre quella montagna non vi fosse più nulla nel mondo, esplorò ragazzetto: ne trarrà l'insegnamento di non basarsi «esclusivamente sul giudizio dei sensi»,[6] come faceva, a suo dire, il grande Aristotele, imparando soprattutto che, aldilà di ogni apparente limite, vi è sempre qualche cosa di altro.
Imparò a leggere e a scrivere da un prete nolano, Giandomenico de Iannello e fece gli studi di grammatica nella scuola di un tale Bartolo di Aloia. Proseguì gli studi superiori, dal 1562 al 1565, nell'Università di Napoli, che era allora nel cortile del convento di San Domenico, per apprendere lettere, logica e dialettica da «uno che si chiamava il Sarnese»[7] e lezioni private di logica da un agostiniano, fra Teofilo da Vairano.
Il Sarnese, ossia Giovan Vincenzo de Colle, nato a Sarno, era un aristotelico di scuola averroista e a lui si fa risalire la formazione antiumanistica e antifilologica del Bruno, per il quale solo i concetti contano, nessuna importanza avendo la forma e la lingua nella quale sono espressi. Nel De la causa, Bruno scrive infatti che quantunque Averroè fosse arabo e perciò «ignorante di lingua greca, nella dottrina peripatetica però intese più che qualsivoglia greco che abbiamo letto; e arebbe più inteso, se non fusse stato così additto al suo nume Aristotele».[8]
Scarse le notizie sull'agostiniano Teofilo da Vairano, del quale Bruno ebbe sempre ammirazione, tanto da farlo protagonista dei suoi dialoghi cosmologici e da confidare al bibliotecario parigino Guillaume Cotin che Teofilo fu «il principale maestro che abbia avuto in filosofia».[9] Per delineare la prima formazione del Bruno, basta aggiungere che, introducendo la spiegazione del nono sigillo nella sua Explicatio triginta sigillorum del 1583, scrive[10] di essersi dedicato fin da giovanissimo allo studio dell'arte della memoria, influenzato probabilmente dalla lettura del trattato Phoenix seu artificiosa memoria, del 1492, di Pietro Tommai, chiamato anche Pietro Ravennate.
In convento [modifica]
Interno della chiesa di San Domenico
A «14 anni o 15 incirca»,[7] rinuncia al nome di Filippo come imposto dalla regola monastica, e assume il nome di Giordano, forse in onore del frate Giordano Crispo, suo insegnante di metafisica, prende quindi l'abito di frate domenicano dal priore del convento di San Domenico Maggiore a Napoli, Ambrogio Pasca: «finito l'anno della probatione, fui admesso da lui stesso alla professione»,[4] in realtà fu novizio il 15 giugno 1565 e professo il 16 giugno 1566, a diciotto anni. Valutando retrospettivamente, la scelta di indossare l'abito domenicano può spiegarsi non già per un interesse alla vita religiosa o agli studi teologici - che mai ebbe, come affermò anche al processo - ma per potersi dedicare ai suoi studi prediletti di filosofia con il vantaggio di godere della condizione di privilegiata sicurezza che l'appartenenza a quell'Ordine potente certamente gli garantiva.
Che egli non fosse entrato fra i domenicani per tutelare l’ortodossia della fede cattolica lo rivelò subito l’episodio – narrato dallo stesso Bruno al processo – nel quale fra’ Giordano, nel convento di San Domenico, buttò via le immagini dei santi in suo possesso, conservando solo il crocefisso e invitando un novizio che leggeva la Historia delle sette allegrezze della Madonna a gettar via quel libro, una modesta operetta devozionale, pubblicata a Firenze nel 1551, perifrasi di versi in latino di Bernardo di Chiaravalle, sostituendolo magari con lo studio della Vita de’ santi Padri di Domenico Cavalca. Episodio che, pur conosciuto dai superiori, non provocò sanzioni nei suoi confronti, ma che dimostra come il giovane Bruno fosse del tutto estraneo alle tematiche devozionali controriformistiche.
Chiesa di San Bartolomeo a Campagna, dove celebrò la prima messa
Sembra[11] che intorno al 1569 sia andato a Roma e sia stato presentato a papa Pio V e al cardinale Scipione Rebiba, al quale avrebbe insegnato qualche elemento di quell'arte mnemonica che tanta parte avrà nella sua speculazione filosofica. Nel 1570 fu ordinato suddiacono, diacono nel 1571, studente di teologia nel 1572 e sacerdote nel 1573, celebrando la sua prima messa nel convento di San Bartolomeo a Campagna, presso Salerno, a quell'epoca appartenente ai Grimaldi principi di Monaco[12], e nel 1575 si laureò in teologia con due tesi su Tommaso d'Aquino e su Pietro Lombardo.
Non bisogna pensare che un convento fosse esclusivamente un'oasi di pace e di meditazione di spiriti eletti: soltanto dal 1567 al 1570, nei confronti dei frati di San Domenico Maggiore furono emesse diciotto sentenze di condanna per scandali sessuali, furti e perfino omicidi:[13] non deve pertanto stupire il disprezzo che Bruno ostentò sempre nei confronti dei frati, ai quali rimproverò in particolare la mancanza di cultura; e non solo: egli fece protagonista della sua commedia Candelaio proprio un suo confratello, un fra Bonifacio da Napoli, candelaio, ossia sodomita. Tuttavia, la possibilità di formarsi un'ampia cultura non mancava certo nel convento di san Domenico Maggiore, famoso per la ricchezza della sua biblioteca ma dove, come negli altri conventi, erano vietati i libri di Erasmo da Rotterdam che però Bruno si procurò in parte, leggendoli di nascosto. L'esperienza conventuale di Bruno fu in ogni caso decisiva: vi poté fare i suoi studi, formare la sua cultura leggendo di tutto: di Aristotele e di Tommaso d'Aquino, di san Gerolamo e di san Giovanni Crisostomo, di Marsilio Ficino, di Raimondo Lullo e di Nicola Cusano.
Nel 1576 la sua indipendenza di pensiero e la sua insofferenza verso l'osservanza dei dogmi si manifestò inequivocabilmente: Bruno, discutendo di arianesimo con un frate domenicano, Agostino da Montalcino, ospite nel convento napoletano, sostenne che le opinioni di Ario erano meno perniciose di quel che si riteneva, dichiarando che «[...] Ario diceva che il Verbo non era creatore né creatura, ma medio intra il creatore et la creatura, come il verbo è mezzo intra il dicente et il detto, et però essere detto primogenito avanti tutte le creature, non dal quale ma per il quale è stato creato ogni cosa, non al quale ma per il quale si refferisce et ritorna ogni cosa all'ultimo fine, che è il Padre, essagerandomi sopra questo. Per il che fui tolto in suspetto et processato, tra le altre cose, forsi di questo ancora [...]».[14] Così riferì nel 1592 all'inquisitore veneziano dei suoi dubbi sulla Trinità, ammettendo di aver «dubitato circa il nome di persona del figliolo e del Spirito Santo, non intendendo queste due persone distinte dal Padre»[15] ma considerando, neoplatonicamente, il Figlio l'intelletto e lo Spirito, pitagoricamente, l'amore del Padre o l'anima del mondo, non dunque persone o sostanze distinte, ma manifestazioni divine.
La fuga da Napoli [modifica]
Roma: Santa Maria sopra Minerva
Denunciato da fra Agostino al padre provinciale Domenico Vita, questi «fece processo contro di me sopra alcuni articuli, ch'io non so realmente sopra quali articuli, né di che in particular; se non che me fu detto che si faceva processo contra di me di eresia [...] per il che, dubitando di non esser messo in preggione, mi partii da Napoli ed andai a Roma»[16]. Bruno raggiunse Roma nel 1576, ospite del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva, il cui procuratore, Sisto Fabri da Lucca, diverrà pochi anni dopo generale dell'Ordine e nel 1581 censurò i Saggi di Montaigne.
Sono anni di gravi disordini: a Roma sembra non farsi altro, scriveva il cronista marchigiano Gualtiero Gualtieri, che «rubare e ammazzare: molti gittati in Tevere, né di popolo solamente, ma i monsignori, i figli di magnati, messi al tormento del fuoco, e nipoti di cardinali erano levati dal mondo [...] i frati [...] lasciate le chiese e i conventi, correvano a questa vita esecranda» e ne incolpava il vecchio e debole papa Gregorio XIII.
Anche Bruno è accusato di aver ammazzato e gettato nel fiume un frate: scrive il bibliotecario Guillaume Cotin, il 7 dicembre 1585, che Bruno fuggì da Roma per «un omicidio commesso da un suo frère, per il quale egli è incolpato e in pericolo di vita, sia per le calunnie dei suoi inquisitori che, ignoranti come sono, non concepiscono la sua filosofia e lo accusano di eresia». Oltre all'accusa di omicidio, Bruno ebbe infatti notizia che nel convento napoletano avevano trovato suoi libri di opere di san Giovanni Crisostomo e di san Gerolamo annotati da Erasmo e che si stava istruendo contro di lui un processo d'eresia.
Le peregrinazioni [modifica]
Portico del Palazzo comunale di Noli
Abbandona allora l'abito domenicano, riassume il nome di Filippo e fugge in Liguria, raggiungendo nell'aprile 1576 Genova: scrive che allora, nella chiesa di Santa Maria di Castello, si adorava come reliquia e si faceva baciare ai fedeli la coda dell'asina che portò Gesù a Gerusalemme. Da qui, va poi a Noli, allora Repubblica indipendente, dove per quattro o cinque mesi insegna grammatica ai bambini e cosmografia agli adulti.
Sotto il portico del Palazzo comunale una lapide ricorda il soggiorno del filosofo:
« Giordano Bruno
Prima d'insegnare all'Europa
Le leggi dell'ordine universale
Fu maestro in Noli
Di grammatica e cosmografia »
Nel 1577 è a Savona, poi a Torino, che giudica deliciosa città ma, non trovandovi impiego, per via fluviale s'indirizza a Venezia, dove alloggia in una locanda nella contrada di Frezzeria, facendovi stampare il suo primo scritto, andato perduto, De' segni de' tempi. «per metter insieme un pocco de danari per potermi sustentar; la qual opera feci veder prima al reverendo padre maestro Remigio de Fiorenza», domenicano del convento dei Santi Giovanni e Paolo.
Ma a Venezia era in corso un'epidemia di peste che aveva fatto decine di migliaia di vittime, anche illustri, come Tiziano, così Bruno va a Padova dove, dietro consiglio di alcuni domenicani, riprende il saio, quindi se ne va a Brescia, dove si ferma nel convento domenicano; qui un monaco, «profeta, gran teologo e poliglotta», sospettato di stregoneria per essersi messo a profetizzare, viene da lui guarito, ritornando a essere - scrive ironicamente Bruno - il solito «asino».
Da Bergamo, nell'estate del 1578, decide di andare in Francia: passa per Milano e Torino, ed entra in Savoia, passando l'inverno nel convento domenicano di Chambéry; nel 1579 è a Ginevra, città dove è presente una numerosa colonia di italiani riformati. Bruno depone nuovamente il saio e si veste di cappa, cappello e spada, aderisce al calvinismo e trova lavoro come correttore di bozze, grazie all'interessamento del marchese napoletano Galeazzo Caracciolo il quale, transfuga dall'Italia, nel 1552 vi aveva fondato la comunità evangelica italiana. Il 20 maggio s'iscrive all'Università come «Filippo Bruno nolano, professore di teologia sacra».
In agosto accusa il professore di filosofia Antoine de la Faye di essere un cattivo insegnante e definisce «pedagoghi» i pastori calvinisti. È probabile che Bruno volesse farsi notare, dimostrare l'eccellenza della sua preparazione filosofica e delle sue capacità didattiche per ottenere un incarico d'insegnante, costante ambizione di tutta la sua vita. Anche la sua adesione al calvinismo era mirata a questo scopo; Bruno fu in realtà indifferente a tutte le confessioni religiose: nella misura in cui l'adesione a una religione storica non pregiudicasse le sue convinzioni filosofiche e la libertà di professarle, egli sarebbe stato cattolico in Italia, calvinista in Svizzera, anglicano in Inghilterra e luterano in Germania.
Scomunicato e processato per diffamazione, il 27 agosto è costretto a ritrattare; lascia allora Ginevra e si trasferisce brevemente a Lione per passare a Tolosa, città cattolica, sede di un'importante Università, dove per quasi due anni occupò il posto di lettore, insegnandovi il De anima di Aristotele e componendo un trattato di arte della memoria, rimasto inedito e andato perduto, la Clavis magna, che si rifarebbe all'Ars magna del Lullo. A Tolosa conobbe il filosofo scettico portoghese Francisco Sanches che volle dedicargli il suo libro Quod nihil scitur, chiamandolo «filosofo acutissimo»; ma Bruno non ricambiò la stima, se scrisse di lui di considerare «stupefacente che questo asino si dia il titolo di dottore».
Nel 1581, a causa della guerra di religione fra cattolici e ugonotti, lascia Tolosa per Parigi dove «acquistai nome tale che il re Enrico terzo mi fece chiamar un giorno, ricercandomi se la memoria che havevo et che professava era naturale o pur per arte magica; al qual diedi sodisfattione; et con quello che li dissi et feci provare a lui medesmo, conobbe che non era per arte magica ma per scientia. E doppo questo feci stampar un libro de memoria, sotto titolo De umbris idearum, il qual dedicai a Sua Maestà; e con questa occasione mi feci lettor straordinario e provvisionato».
Le opere [modifica]
Le prime opere parigine [modifica]
Il De umbris idearum [modifica]
Nell'opera, la prima parte, la Triginta intentiones umbrarum, individua i modi con i quali si percepiscono le ombre, le immagini della realtà; la seconda, la Triginta conceptus idearum, individua l'ordine dell'universo, retto platonicamente dalle idee, e la terza parte è costituita da un trattato di mnemotecnica.
In quest'opera sono già espressi i principi essenziali della sua filosofia: «Uno solo è il corpo dell'Ente universale, uno solo è l'ordine, uno solo il governo, uno solo è il principio e una sola la fine, uno solo è il primo e uno solo è l'ultimo» e dunque ogni cosa ha eguale dignità rispetto a ciascun'altra e «una sola cosa è quella che definisce tutte le cose, uno solo è lo splendore della bellezza in tutte le cose, un solo fulgore luccica dalla moltitudine delle specie».
L'universo è dunque un corpo unico, organicamente formato, con un preciso ordine che struttura ogni singola cosa e la connette con tutte le altre. Fondamento di quest'ordine sono le idee, principi eterni ed immutabili, ogni singolo ente essendo imitazione, immagine, ombra della realtà ideale che la regge. Rispecchiando in se stessa la struttura dell'universo, la mente umana, che ha in sé non le idee, ma le ombre delle idee, può raggiungere la vera conoscenza, ossia le idee e il nesso che connette ogni cosa con tutte le altre, al di là della molteplicità degli elementi particolari e del loro mutare nel tempo. Si tratta allora di cercare di ottenere un metodo conoscitivo che colga la complessità del reale, fino alla struttura ideale che sostiene il tutto.
Tale mezzo è l'arte della memoria, il cui compito è di evitare la confusione generata dalla molteplicità delle immagini e di connettere le immagini delle cose con i concetti, rappresentando simbolicamente tutto il reale. «La natura» – scrive Bruno - «non permette il passaggio immediato da un estremo all'altro, ma con l'aiuto di ombre e poco alla volta, con ombre velate» così che «l'ombra prepara la vista alla luce. L'ombra tempra la luce», concetto tratto evidentemente dal platonico mito della caverna.
Il Cantus Circaeus [modifica]
Illustrazione dal Cantus Circaeus
Dello stesso anno è il Cantus Circaeus, opera composta da due dialoghi: nel primo la maga Circe, rovesciando il noto mito narrato da Omero, mostra all'allieva Meri come rivelare la vera natura bestiale di esseri che hanno una forma umana; nel secondo, due allievi di Bruno, Borista ed Alberico, imparano le tecniche dell'arte della memoria insegnate dal maestro.
La trasformazione degli uomini in bestie non è dunque un capriccioso sopruso ma la ricomposizione della corrispondenza fra anima e corpo, fra essenza e apparenza, la restituzione del naturale aspetto di ciascun individuo, una corrispondenza che si è perduta nella decadenza dei tempi attuali. Pochissimi saranno gli esseri umani che, al termine della dimostrazione, manterranno l'aspetto originario: «di tanti uomini che prima potevamo vedere, solo tre o quattro sono rimasti tali e corrono tremanti a mettersi al sicuro. Di tutti gli altri, chi si rifugia nella caverna più vicina, chi vola sui rami degli alberi, chi si getta a precipizio nel vicino mare mentre altri, di indole più domestica, si avvicinano in fretta alla nostra casa»; ora sono stati privati delle armi terribili proprie dell'uomo, la lingua e la mano, con le quali avevano provocato la crisi del mondo.
Il secondo dialogo è un manuale di mnemotecnica, l'arte «che mostra la via e apre l'ingresso a massime invenzioni», ove in particolare Bruno mostra come memorizzare il dialogo precedente. Al testo si fa corrispondere uno scenario che viene via via suddiviso in un maggior numero di spazi, come un appartamento diviso in stanze i cui mobili e i vari oggetti lì contenuti sono le immagini corrispondenti ai concetti espressi nello scritto.
Candelaio [modifica]
Ancora nel 1582 Bruno pubblica il Candelaio, una commedia in cinque atti in cui alla complessità del linguaggio, un insieme di latino, di toscano e di napoletano, corrisponde l'eccentricità della trama, fondata su tre storie parallele. Il candelaio Bonifacio, pur sposato con la bella Carubina, corteggia la cortigiana Vittoria, l'alchimista Bartolomeo si ostina a cercare inutilmente di trasformare i metalli in oro, il grammatico Manfurio si esprime in un linguaggio incomprensibile e il pittore Gioan Bernardo, insieme con una corte di servi e malfattori, si fa beffe di tutti e conquista Carubina.
In questo classico della letteratura italiana, appare un mondo assurdo, violento e corrotto, rappresentato con amara comicità, dove gli eventi si succedono in una trasformazione continua: «il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l'animo mi si aggrandisce, e me si magnifica l'intelletto» e nulla è «di sicuro, ma assai di negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono».
Nel titolo della commedia Bruno definisce se stesso un accademico di nessuna accademia, ilare nella tristezza e triste nell'ilarità e si fa una sorta di autoritratto: «par che sempre sii in contemplazione delle pene dell'inferno [...] un che ride solo per far come fan gli altri: per lo più lo vedrete fastidito, restio e bizarro: non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d'ottant'anni, fantastico com'un cane ch'ha ricevuto mille spellicciate, pasciuto di cipolla».
La commedia è ambientata nella Napoli-metropoli del secondo Cinquecento, di cui abbiamo, come rileva Pasquale Sabbatino, il ritratto cartografico disegnato da Du Pérac e stampato da Antoine Lafréry a Roma nel 1566 e la descrizione di Giovanni Tarcagnota, Del sito, et lodi della città di Napoli, apparsa a Napoli, nello stesso anno, presso Scotto.
In Inghilterra [modifica]
Lo storico Magdalen College di Oxford
Nell'aprile 1583 «andai in Inghilterra a star con l'ambasciator di Sua Maestà, che si chiamava il signor della Malviciera, per nome Michel de Castelnovo; in casa del qual non faceva altro, se non che stava per suo gentilhomo. Et me fermai in Inghilterra doi anni et mezo; né in questo tempo, ancora che si dicesse la messa in casa, non andavo né fuori a messa, né a prediche, per la causa sudetta». A giugno, a Oxford, nella chiesa di St Mary, sostenne con uno di quei professori una disputa pubblica. Tornato a Londra, vi pubblicò l' Ars reminiscendi – che riproduce la parte finale del Cantus circaeus - il Sigillus sigillorum e l' Explicatio triginta sigillorum, nella quale inserì una lettera indirizzata al vice cancelliere dell'Università di Oxford, nella quale scrisse che a Oxford «troveranno dispostissimo e prontissimo un uomo col quale saggiare la misura delle proprie forze». È una richiesta di poter insegnare nella prestigiosa Università che viene accolta e nell'estate del 1583 Bruno vi tiene tre lezioni sulle teorie copernicane.
Con gli studi di Frances Yates (da un documento scoperto da Robert McNulty) a Oxford non gradiscono quelle finte novità, come testimonierà venti anni dopo, nel 1604, l'arcivescovo di Canterbury Georg Abbot, che fu presente alle lezioni di Bruno, «quell'omiciattolo italiano [...] intraprese il tentativo, tra moltissime altre cose, di far stare in piedi l'opinione di Copernico, per cui la terra gira e i cieli stanno fermi; mentre in realtà era la sua testa che girava e il suo cervello che non stava fermo». Le lezioni furono interrotte quando si accorgono (quasi parola per parola) del plagio al De vita coelitus comparanda di Marsilio Ficino, dove la teoria eliocentrica è ridotta ad una magia; quindi sempre derivante dal Corpus Hermeticum.[17]
Ritornato a Londra, nel 1584 vi pubblicò La cena de le ceneri, il De la causa, principio et uno, il De l'infinito, universo e mondi e lo Spaccio de la bestia trionfante, mentre l'anno successivo uscirono De gli eroici furori e la Cabala del cavallo pegaseo.
Le opere londinesi [modifica]
La Cena de le Ceneri [modifica]
La Cena de le Ceneri è divisa in cinque dialoghi ed è la sua seconda opera in volgare, dedicata all'ambasciatore francese a Londra Michel de Castelnau. Bruno immagina che il nobile sir Fulke Greville, il giorno delle Ceneri, inviti a cena Bruno, Giovanni Florio, segretario dell'ambasciatore francese, il medico Matthew Gwinne, il cavaliere Brown e due dottori luterani di Oxford.
Cracovia: monumento a Copernico
Bruno vi difende la teoria di Niccolò Copernico contro gli attacchi dei conservatori e contro chi, come Andrea Osiander, considera solo un'ipotesi ingegnosa quella del Copernico, «uomo» – scrive Bruno – «che non è inferiore a nessuno astronomo, che sii stato avanti lui [...]: al che è divenuto, per essersi liberato da alcuni presuppositi falsi de la commune e volgar filosofia, non voglio dir cecità, ma però non se n'è molto allontanato; perché lui più studioso de la matematica, che de la natura, non ha possuto profondar e penetrar sin tanto, che potesse a fatto toglier via le radici d'inconvenienti e vani principii».
I vani principi sono la finitezza dell'universo e il credere che in esso esista un centro dove ora dovrebbe trovarsi immobile il sole come prima vi si immaginava fissa la terra. Seguendo la Docta ignorantia del Cusano, Bruno sostiene l'infinità dell'universo, in quanto effetto di una causa infinita, e dunque l'insussistenza di un centro. Bruno è naturalmente consapevole che le Scritture sostengono tutt'altro – finitezza dell'universo e centralità della terra – ma, risponde, «se gli dei si fossero degnati di insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto favore di proporci la pratica di cose morali, io più tosto mi accosterei alla fede de le loro rivelazioni, che muovermi punto della certezza de mie raggioni e proprii sentimenti». Ma la Scrittura tratta le norme morali, non è già una filosofia della natura, non si occupa delle speculazioni e delle dimostrazioni delle cose naturali: la Scrittura «parla al volgo di maniera che, secondo il suo modo di intendere e di parlare, venghi a capire quel ch'è principale».
Come occorre distinguere tra dottrine morali e filosofia naturale, così occorre distinguere tra teologi e filosofi: questi sanno che non esistono premi e punizioni in una vita futura, perché le anime, secondo Bruno, si reincarnano in corpi sempre diversi, mentre i teologi hanno imposto punizioni ed elargito premi allo scopo di far rispettare le buone norme del comportamento sociale.
De la causa, principio et uno: la Vita come materia infinita [modifica]
I cinque dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i principi della realtà naturale. Bruno lascia da parte il problema di Dio, del quale, come causa e principio della natura, non possiamo conoscere nulla attraverso il «lume naturale», perché esso «ascende sopra la natura» e si può pertanto conoscere Dio solo per «lume soprannaturale», ossia solo per fede.
Forma universale del mondo è l'anima del mondo, la cui prima e principale facoltà è l'intelletto universale il quale «empie il tutto, illumina l'universo e indirizza la natura a produrre le sue specie»: i pitagorici lo chiamano motore ed agitatore dell'universo, i platonici il fabbro del mondo, proprio perché forma la materia dal suo interno, e dunque è sua causa intrinseca, ma è anche causa estrinseca, dal momento che non si esaurisce nelle cose. L'intelletto è il «principio formale costitutivo de l'universo e di ciò che in quello si contiene» e la forma non è altro che il principio vitale, l'anima delle cose le quali, proprio perché tutte dotate di anima, non hanno imperfezione.
La costellazione di Orione
La materia non è in se stessa indifferenziata, un nulla, come hanno sostenuto tutti i filosofi, una bruta potenza, senza atto e senza perfezione, come direbbe Aristotele: questi considera l'atto la manifestazione esplicita della forma, non la forma implicita, errando, per Bruno, perché «l'essere espresso, sensibile ed esplicato, non è la principal raggion de l'attualità, ma è cosa consequente et effetto di quella»: così come la ragione della sostanza della materia legno non sta nell'essere, per esempio, un letto, ma nell'essere una sostanza e nell'avere una consistenza tale da poter essere qualunque cosa formata di legno. Anche se pensata senza una forma, non per questo la materia «come il ghiaccio è senza calore» ma semmai «come la pregnante è senza la sua prole, la quale la manda e la riscuote da sé [...] non viene a ricever le dimensioni come di fuora, ma a cacciarle come dal seno».
La materia è allora il secondo principio della natura, dalla quale ogni cosa è formata: «come nell'arte, variandosi in infinito le forme, è sempre una materia medesma che persevera sotto quella, come la forma dell'albore è una forma di tronco, poi di trave, poi di tavolo, poi di scabello, e così via discorrendo, tuttavolta l'esser legno sempre persevera; non altrimenti nella natura, variandosi in infinito e e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una medesma la materia». Essa è «potenza d'esser fatto, prodotto e creato», aspetto equivalente al principio formale che è potenza attiva, «potenza di fare, di produrre, di creare» e non può esserci l'un principio senza l'altro, sicché «il tutto secondo la sostanza è uno».
Discende da questa considerazione l'elemento fondamentale della filosofia bruniana: tutta la vita è materia, materia infinita. Scrive infatti che, sia in atto che in potenza, sia che abbia un'estensione - sia cioè sostanza corporea - sia che non abbia estensione - e sia allora sostanza incorporea - è pur sempre materia, e «tutta la differenza depende dalla contrazione a l'essere corporea e non essere corporea [...] quella materia per essere attualmente tutto quel che può essere, ha tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni; e perché le ave tutte, non ne ha nessuna, perché quello che è tante cose diverse bisogna che non sia alcuna di quelle particolari. Conviene, a quello che è tutto, che escluda ogni essere particolare».
«È dunque l'universo uno, infinito, immobile; una è la possibilità assoluta, uno l'atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo et ottimo; il quale non deve poter essere compreso; e perciò infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato e per conseguenza immobile; questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto; non si genera perché non è altro essere che lui possa derivare o aspettare, atteso che abbia tutto l'essere; non si corrompe perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa; non può sminuire o crescere, atteso che è infinito, a cui non si può aggiungere, così è da cui non si può sottrarre, per ciò che lo infinito non ha parti proporzionabili».
Il De l'infinito, universo e mondi [modifica]
Nel De l'infinito, universo e mondi Bruno riprende temi già affrontati nei dialoghi precedenti - la necessità di un accordo tra filosofi e teologi, perché «la fede si richiede per l'istituzione di rozzi popoli che denno esser governati», l'infinità dell'universo e l'esistenza di mondi infiniti, la mancanza di un centro in un universo infinito, che comporta un'ulteriore conseguenza, la scomparsa dell'antico, ipotizzato ordine gerarchico, la «vanissima fantasia» che riteneva che al centro vi fosse il «corpo più denso e crasso» e si ascendesse ai corpi più fini e divini. La concezione aristotelica è difesa ancora da quei dottori che hanno fede nella «fama de gli autori che gli son stati messi nelle mani», ma i filosofi moderni, che non hanno interesse a intendere quello che dicono gli altri, ma pensano con la loro testa, si sbarazzano di queste anticaglie e si avviano «con più sicuri passi alla cognizione della natura».
L'etica civile: lo Spaccio de la bestia trionfante [modifica]
Insieme con i successivi De gli eroici furori, lo Spaccio de la bestia trionfante è costituito da tre dialoghi di argomento morale. Le bestie trionfanti sono i segni delle costellazioni celesti, rappresentate da animali: occorre «spacciarle», cacciarle dal cielo in quanto rappresentanti vecchi vizi che è tempo di sostituire con moderne virtù, occorre una nuova serie di valori cui l'uomo moderno possa e debba fare riferimento.
Occorre tornare alla sincerità, semplicità e alla verità, ribaltando le concezioni morali che si sono ormai imposte nel mondo, secondo le quali le opere e gli affetti eroici sono privi di valore, dove credere senza riflettere è sapienza, dove le imposture umane sono fatte passare per consigli divini, la perversione della legge naturale è considerata pietà religiosa, studiare è follia, l'onore è posto nelle ricchezze, la dignità nell'eleganza, la prudenza nella malizia, l'accortezza nel tradimento, il saper vivere nella finzione, la giustizia nella tirannia, il giudizio nella violenza.
Il cristianesimo è responsabile di questa crisi: già Paolo operò il rovesciamento dei valori naturali e ora la Riforma ha chiuso il ciclo: la ruota della storia, della vicissitudine del mondo, essendo giunta al suo punto più basso, può operare un nuovo e positivo rovesciamento dei valori.
Nella nuova gerarchia di valori il primo posto spetta alla verità, cui segue la prudenza, la caratteristica del saggio che, conosciuta la verità, ne trae le conseguenze con un comportamento adeguato. Al terzo posto Bruno inserisce la sofia, la ricerca della verità e dopo viene la legge, che disciplina il comportamento civile dell'uomo. Vengono poi la fortezza, la forza dell'animo, virtù interiore cui seguono virtù indirizzate agli altri, la filantropia e la magnanimità. È questa evidentemente un'etica che richiama i valori tradizionali dell'Umanesimo, cui Bruno non ha mai dato molta importanza; ma questo schema rigido è in realtà la premessa per le indicazioni di comportamento che Bruno prospetta nell'opera di poco successiva, De gli eroici furori.
« Li nostri divi asini, privi del proprio sentimento ed affetto vegnono ad intendere non altrimente che come gli vien soffiato alle orecchie delle rivelazioni o degli dei, o dei vicarii loro; e per conseguenza a governarsi non secondo altra legge che di que' medesimi. »
(Giordano Bruno, Cabala del Cavallo Pegaseo)
Gli Eroici furori [modifica]
Nei dieci dialoghi che compongono l'opera De gli eroici furori, pubblicati a Londra nel 1585, Bruno individua tre specie di passioni umane: quella per la vita speculativa, volta alla conoscenza, quella per la vita pratica e attiva, e quella per la vita oziosa. Le due ultime tendenze sono espressione di un furore di poco valore, un «furore basso»; il desiderio di una vita volta alla contemplazione è l'espressione di un «furore eroico», con il quale l'anima, «rapita sopra l'orizzonte de gli affetti naturali [...] vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto».
Diana e Atteone, di Delacroix
Non si giunge a tale effett