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Angelo Ambrogini

Persona

drammaturgo

, Montepulciano, Siena / , Firenze


Biografia   

AMBROGINI, Angelo, detto il Poliziano. - Nacque a Montepulciano (sul cui nome latino Mons Politianus egli foggerà poi il proprio appellativo umanistico) il 14luglio 1454 da Benedetto, egregius legum doctor,e da Antonia Salimbeni. Non aveva ancora compiuto i dieci anni, quando gli fu ucciso il padre per vendetta. Non pare che questa tragica esperienza abbia esercitato particolare influenza sull'animo dell'A., almeno a giudicare dal fatto che egli non ne fa mai alcun cenno nella sua opera letteraria. La morte del padre ebbe comunque parte notevole nel suo destino, poiché la madre, rimasta vedova con cinque figli in tenera età, fu costretta, per alleggerire il carico familiare, ad inviare Angelo, che era il primogenito, a Firenze presso un cugino, non sappiamo precisamente in quale tempo, ma certo non dopo il 1469.

Intorno a quegli anni, la città che si apriva allo sguardo del giovanissimo e intelligente provinciale, era in un momento assai delicato e complesso della sua storia. Proprio allora, infatti, sul tronco robusto di quello che è stato felicemente definito "umanesimo civile" fiorentino, sulla vigorosa fede nella "virtù" umana e in particolare nelle capacità civilmente costruttive dell'intelligenza e della cultura, si cominciano a profilare alcuni indizi di uno stato d'animo tendente a negare o almeno a limitare quella fede. Al 1470 risalgono le prime riforme costituzionali di Lorenzo de' Medici, primi segni di una evoluzione verso un assolutismo disilluso e realistico, che reciderà i sogni di libertà repubblicana e tenderà a respingere la letteratura e la cultura fuori dalla attiva collaborazione politica e a considerarle, se non proprio come strumento di tirannide, quale nobile e raffinato, ma comunque esterno, elemento decorativo. Questa separazione della cultura dalla vita civile aveva cominciato, d'altra parte, a manifestarsi da tempo nell'opera di Marsilio Ficino, che nel 1470 aveva già compiuto le sue traduzioni di Platone e degli scritti ermetici e composto e pubblicato più di un'opera in cui il concetto umanistico della dignitas hominis si fondava non tanto sulle sue possibilità di azione terrena, quanto sulla capacità di attingere, attraverso la contemplazione mistica, un mondo sovrumano fatto di luce e di amore. Né mancano segni del nuovo orientamento nel campo propriamente artistico: nel 1470 è stato già scritto il Morgante,estrosa evasione nel mondo di una bizzarra soprarealtà tutta linguistica, mentre cominciano a dipingere e a scolpire pittori e scultori raffinatamente decorativi quali il Baldovinetti, il Botticelli, Antonio Pollaiolo.

A queste nuove tendenze rimane tutt'altro che insensibile, fin dall'inizio del suo soggiorno a Firenze, il giovane Poliziano. Anche perché assillato da preoccupazioni economiche, se non addirittura dalla miseria (il cugino presso cui alloggiava, era uomo povero e "senza aviamento"), egli è ben lontano dall'idea di impegnare la sua intelligenza in una attività indipendente; anzi, fin dai primissimi anni lo vediamo dirigere epigrammi latini di elogio e di supplica ai più autorevoli cittadini, lamentando la propria povertà e offrendo i suoi servigi di poeta, finché non gli si presenta l'occasione più splendida che egli poteva augurarsi, quella di suscitare il benevolo interessamento di Lorenzo de' Medici. Le qualità del giovane dovettero subito colpire l'occhio acuto del Magnifico. Ma nella casa dei Medici sembra che egli sia entrato solo verso il 1473, quando aveva già composto e dedicato a Lorenzo i due primi libri della sua versione dell'Iliade,e che all'inizio il Magnifico non gli abbia affidato alcun incarico preciso, lasciandolo libero di continuare i suoi studi nella biblioteca medicea, e solo saggiandone le qualità in qualche servizio saltuario di segreteria. L'incarico viene solo nel 1475, quando il Poliziano è scelto quale precettore di Piero, allora fanciulletto di tre anni: sistemazione sicura, rafforzata da donativi e benefici importanti, come la ricca prioria di San Paolo concessagli, dopo molte insistenze, nel 1477. Quanto tale sistemazione non solo non dispiacesse ma costituisse il vero ideale di vita del Poliziano è provato non solo dagli entusiastici ringraziamenti in versi e in prosa al suo protettore, che gli aveva assicurato la "vatum pretiosa quies",la serenità spirituale e la tranquillità economica che erano per lui condizioni essenziali per la creazione poetica, ma ancor più dal fatto che il periodo dal 1473 al 1478, quello cioè passato in casa del Magnifico, corrisponde alla fase poeticamente più viva e originale della sua carriera letteraria.

Ma se la protezione di Lorenzo crea all'attività letteraria del Poliziano l'ambiente, per così dire, esterno più favorevole e congeniale, per comprendere i caratteri interni di questa attività è essenziale sottolineare e precisare, più di quanto sinora si è fatto, i rapporti del giovane scrittore con il Ficino e l'orientamento neoplatonico che da questo prende le mosse. Che il Poliziano frequentasse le libere lezioni tenute da Marsilio e fosse assai sensibile al fascino della recondita dottrina, delle mistiche elevazioni e, più ancora, della poetica eloquenza del filosofo, è provato da una elegia del 1473 diretta a Bartolomeo della Fonte. Ma per intendere la particolare natura di questo interesse dell'A. per il Ficino e il neoplatonismo, giova ricordare un altro documento di poco posteriore, una nota da lui apposta verso il 1474 alla propria traduzione del IV libro dell'Iliade,nella quale, accanto alla citazione di un autore come Proclo, assai caro ai neoplatonici, e all'accoglimento dell'interpretazione allegorizzante e neoplatonica di Omero, troviamo una spiegagazione mitico-fisica degli dei pagani, rappresentati con preziose immagini letterarie quali "raggianti divinità, rotanti in un cosmo eternamente giovane, che il poeta contempla con soddisfazione d'esteta"(I. Maier). Questo passaggio da Proclo e dall'allegoria a un poetico abbandono al mito è assai significativo. Esso testimonia che, se il Poliziano respira dall'ambiente neoplatonico la tendenza a volgersi da una cultura civilmente impegnata verso una cultura più "separata"e contemplativa, questa tendenza nel suo animo, privo di una vera vocazione religiosa e filosofica, si orienta fin dall'inizio non verso la meditata riflessione o l'ascesi mistica, ma verso la filologia e la poesia: una filologia che, mentre accoglie dal Valla e dalla sua scuola l'esigenza di restituire criticamente il mondo classico nelle sue genuine sembianze storiche, si volge poi con aristocratico compiacimento ad esplorarne le zone più remote e inconsuete, più ricche di parole e di immagini vivide e rare; e una poesia che si configura come vagheggiamento, trasceglimento e ricomposizione di queste parole e di queste immagini, secondo quella poetica della "dotta varietà"che verrà consapevolmente elaborata solo più tardi, in una specie di "sopramondo" non più, come nel Ficino, fatto di luce divina e di amore sovrumano, ma non meno splendidamente e serenamente lontano, nella sua vivacissima vitalità tutta letteraria, dalle inquietudini e dalle amarezze della vita quotidiana.

Naturalmente la precedenza della filologia rispetto alla poesia nell'animo e nell'opera dell'A. non deve essere intesa nel senso che la poesia abbia come condizione del proprio nascimento una attività filologica regolarmente esercitata. In questa prima fase l'attività filologica vera e propria si riduce sostanzialmente all'assidua frequenza alle lezioni del Landino e dei grandi maestri greci, dall'Argiropulo ad Andronico Callisto al Calcondila, che insegnavano allo studio fiorentino intorno al 1470-1475, e a qualche revisione e collazione di codici di autori classici. Ciò non toglie che il nesso con la filologia, nel senso particolare che si è illustrato, appaia evidentissimo già nelle poesie giovanili, e prima di tutto in quelle latine. Non molto più che un brillante esercizio è la traduzione in esametri latini dei libri II-V dell'Iliade (compiuta fra il 1470 e il 1475), con la quale il giovane autore si presenta al mondo degli umanisti e alla quale effettivamente egli deve la sua prima notorietà. Ma se il gusto del Poliziano vi appare ancora legato a quello corrente, che tendeva a rendere Omero più "virgiliano", cioè più ornato, più armonioso, più eloquente, non è tuttavia senza significato che negli ultimi due libri, tradotti dopo il 1473, si noti una più stretta aderenza al linguaggio omerico e in particolare a certe espressioni più caratteristiche, che è sintomo di un gusto stilistico più vario e spregiudicato. Ma la vera rivelazione della poesia polizianesca, nella sua originalità e anche nei suoi limiti, si ha soltanto in un gruppo di elegie, odi ed epigrammi, composti tra il 1473 e il 1478. I temi di questi componimenti -invocazioni amorose, elogi di potenti e di amici, epicedi, invettive contro avversari -,attinti come sono dalle comuni occasioni della vita quotidiana, si distaccano da quelli della poesia severamente religiosa del Ficino e dei neoplatonici, e rientrano invece negli argomenti della precedente lirica umanistica. Ma tali temi non sono, però, trattati dal Poliziano con il cordiale e robusto realismo proprio di quest'ultima, bensi vengono trasferiti -per mezzo di un personalissimo stile che accosta e combina, con effetti di dottissima e variopinta vivacità, espressioni e immagini attinte specialmente dai coloriti e preziosi autori della decadenza, da Ovidio a Claudiano, ma anche talora dagli stilnovisti e dal Petrarca -sul piano di fantasie letterarie, dove la passione amorosa si traduce nel vagheggiamento di luminose bellezze mitiche, i motivi dolorosi e l'odio per gli avversari in elegantissimo orrore, gli encomi, le adulazioni e le suppliche in spiritosi giuochi verbali. Il limite di questa trasfigurazione è, naturalmente, il pericolo di trascorrere nella squisita rievocazione erudita e nel compiaciuto lusus letterario. Ma ai lettori che non siano romanticamente prevenuti verso questo tipo di poesia, i momenti di grazia appariranno né rari né tenui. Particolarmente belli sono l'epicedio per Albiera degli Albizzi (1473), forse la prima opera artisticamente notevole del Poliziano, in cui la tragica vicenda della giovanissima fiorentina, rapita al fidanzato e ai parenti da una violenta e inesorabile malattia, si trasforma in un episodio mitico splendidamente colorito; le elegie amorose In violas a venere mea dono acceptas e In Lalagen,in cui l'ispirazione teneramente sensuale si alleggerisce in una serie di luminose e sapienti variazioni; e ancora soprattutto l'ode in quaternari giambici In puellam suam,ritratto di una bellissima fanciulla nella sua vitalissima grazia tutta fisica, eppure anch'essa, disegnata com'è attraverso immagini aristocraticamente letterarie, remota in un mondo senza tempo e senza turbamenti. Ma non meno felici vanno giudicati gli effetti squisitamente grotteschi di alcune invettive In Mabilium,e soprattutto della Sylva in scabiem (1475), nella quale l'autore descrive, attraverso estrosissime contaminazioni linguistiche e stilistiche e un ritmo allegramente inconcinnus nella sua sapientissima irregolarità, i sintomi, i farmaci e le sofferenze di un violento (e quasi certamente immaginario) attacco di scabbia.

Il capolavoro della giovinezza dell'A. è, però, un poemetto volgare in ottave, le Stanze,composte fra il 1475 e il 1478. All'altissima valutazione dei posteri, che collocano quest'opera fra le massime del Quattrocento e di tutta la letteratura italiana, non risponde il giudizio dell'autore, che non solo non si preoccupò mai di pubblicarla, ma mostrava per essa, almeno nella sua maturità, un certo disprezzo. Per noi, tuttavia, non c'è dubbio che proprio nelle Stanze l'autore ha espresso, con una originalità e una organicità poetica né prima né poi raggiunte in altre opere, quell'incrocio di terrestre umanesimo e di separata, aristocratica contemplazione, che costituisce il nucleo caratteristico della sua personalità e della sua poesia.

Lo spunto del breve poema è tratto, come nelle opere latine finora esaminate, dalla contemporanea vita fiorentina: realmente vissuti sono i due protagonisti, Giuliano, fratello del Magnifico, e Simonetta, la celebre Simonetta Cattaneo, moglie del fiorentino Amerigo Vespucci e amata platonicamente da Giuliano e dallo stesso Lorenzo; realmente avvenute sono la giostra, combattuta e vinta da Giuliano il 28 genn. 1475, e la morte immatura di Simonetta, scomparsa poco più di un anno dopo il 26 aprile 1476. Tale vicenda, assai simile a quella cantata nell'epicedio di Albiera, dovette certo impressionare vivamente e dolorosamente l'inquieta sensibilità del Poliziano, come un esempio del drammatico scontro dei grandi sogni umanistici di amore e di gloria con le forze ineluttabili della Fortuna e della Morte. Ma questa impressione dolorosa, pur trapelando più scopertamente in qualche punto ("Ma che puote a Fortuna esser disdetto, -ch'a nostre cose allenta e stringe il morso?... Adunque il tanto lamentar che giova? -a che di pianto pur bagnar le gote? -se pur convien che lei ci guidi e mova, - se mortal forza contr'a lei non puote, -se con sue penne il nostro mondo cova -e tempra e volge come vuol le rote" II, 35-36),rimane anche nelle Stanze soltanto un punto di partenza, un presupposto. Come già nell'epicedio di Albiera e altrove, il poeta reagisce a quella impressione nel modo che a lui è concesso: trasportandosi in una atmosfera letteraria, dove quella vicenda di passione, di eroismo e di dolore acquista i colori e le dimensioni di una mitica sovrarealtà, "dove non volgon gli anni il lor quaderno". A questa trasformazione contribuisce notevolmente già la favola del poemetto, costruita sul modello dei carmi epico-encomiastici di Claudiano e degli altri poeti della decadenza latina, all'A. particolarmente cari: non soltanto Giuliano, anzi Julo, viene rappresentato come un semidio silvestre, e Simonetta come una ninfa, ma nella narrazione sono inseriti personaggi, elementi descrittivi e addirittura ampi episodi mitologici, come e soprattutto la mirabile descrizione del giardino di Venere e delle scene scolpite nelle porte, descrizione essenziale, non meno e forse ancor più di quelle della caccia di Julo e dell'incontro di questo con Simonetta, alla creazione dell'atmosfera vividamente e serenamente remota delle Stanze.Ma più sottilmente e profondamente della stessa favola mitologica contribuisce a questa atmosfera, come nelle poesie latine, lo stile. Non è certo da escludere che ad impiegare il volgare in un'opera di indubbia impegno letterario il Poliziano possa aver ricevuto stimolo dal movimento di rivalutazione della lingua e della letteratura fiorentina, promosso appunto in quegli anni da Lorenzo, sia per motivi di prestigio politico, sia in omaggio all'ammirazione neoplatonica per gli stilnovisti: un movimento cui anche l'A. consapevolmente collabora con la epistola dedicatoria, che sembra con ogni probabilità stesa proprio da lui, della Raccolta aragonese inviata da Lorenzo a Federigo d'Aragona intorno al 1476-1477. Ma si tratta comunque, nel caso delle Stanze,solo di uno stimolo generico. La ragione profonda che spinge il Poliziano a scegliere il volgare quale mezzo d'espressione per la sua opera poeticamente più valida, va cercata invece proprio nel nucleo più personale del suo gusto, nella possibilità che il volgare gli offre di realizzare artisticamente, con una libertà e una originalità che il latino non poteva consentirgli, quella vivacissima e sapientissima tensione linguistica che è al centro della sua poetica della "dotta varietà". Scrivendo in volgare, infatti, e in un volgare elasticamente e spregiudicatamente aperto ad ogni suggestione come quello fiorentino della seconda metà del Quattrocento, non solo egli non perde la facoltà di usufruire dei tesori degli scrittori classici, ma può inoltre compiere tutto un sottile lavoro di combinazione e di adattamento dei moduli greci e latini con quelli della nuova e moderna lingua, e tentare quindi tutta una serie di accordi e contrasti di nuovo e più vario e prezioso sapore.

Questi accordi e contrasti si realizzano, come recenti indagini hanno dimostrato, soprattutto sul piano lessicale, dove, accanto ai numerosi latinismi (fra i quali specialmente significativi quelli derivati da Ovidio, da Seneca e da altri scrittori argentei, nonché dalle Bucoliche e dalle Georgiche),liberamente adattati (per esempio flexipedes hederae = "l'ellera va carpon coi pie' distorti"),compaiono voci tratte dalla tradizione aulica volgare, dagli stilnovisti al Petrarca, e anche, per particolari effetti di elegante dissonanza, non pochi aspri termini danteschi, e persino, se pur non frequenti, vocaboli popolari e tecnici. Ma la variopinta tensione che caratterizza lo stile delle Stanze si ritrova anche in altri campi come la fonologia e la morfologia, esse pure sostanzialmente letterarie, ma ravvivate da qualche forma dell'uso corrente, quali i presenti indicativi in -'ono e i perfetti in -òrono (-òrno)e -'ono;e soprattutto nell'ambito sintattico-ritmico. Se, infatti, in questa parte le strutture sono attinte quasi tutte dall'uso corrente e dalla letteratura popolare - la sintassi prevalentemente piana e tendente ad evitare subordinazioni complesse e a preferire invece coordinazioni, soprattutto di tipo asindetico; l'ottava esternamente chiusa e internamente franta in minori membretti, in distici, in versi singoli, sul modello dello strambotto o rispetto; il verso stesso interrotto frequentemente da apocopi, come era uso nelle frottole e nelle cacce -; tutte queste strutture sintattico-ritmiche non vengono riprese con intento popolaresco o realistico, bensì come schemi irregolari ed inconsueti da rielaborare letterariamente per mezzo di tutta una serie di artifici - anafore, chiasmi, zeugmi, inversioni di parole, antitesi, parallelismi, ecc. -gustosamente contrastanti, nella loro nobiltà retorica, con la natura di quegli schemi; né diversamente accade per la non rara rima sdrucciola, in sé di chiara ascendenza popolare, ma usata dal poeta per collocare in punta di verso non parole popolari o plebee, sì invece per lo più illustri aggettivi di origine latina ("pavido", "maritimo", ecc.). A rinsaldare poi l'effetto in definitiva aristocraticamente "separato" di questa tecnica della "varietà concorde"(per usare una acuta definizione carducciana) intervengono altri moduli stilistici, di efficacia, per così dire, direttamente contemplativa: l'uso dell'aggettivo come epiteto "libero", in funzione, cioè, tra predicativa e modale ("già s'inviava quindi per partire - la ninfa sopra l'erba lenta, lenta"); l'impiego frequente del presente storico, dell'imperfetto, della perifrasi di andare con il gerundio ("giva le sparte rose ventilando"),di infiniti con valore quasi autonomo: di modi, insomma, che tendono a prolungare e ad attutire e insieme a fissare l'azione del verbo.

Le Stanze rimangono interrotte, come si sa, alla ottava 46 del II libro, dopo il sogno fatidico di Julo. La ragione prima di questa interruzione sarà da cercare senza dubbio nella natura interna dell'ispirazione del Poliziano, nella sua incapacità di mantenere a lungo una elevata tensione poetica, incapacità tanto più sensibile sul piano del volgare, dove se gli sono possibili più alti voli poetici, gli è anche meno facile trapassare, nei momenti di stanchezza, a quelle rievocazioni erudite e a quelle sapienti imitazioni, che più agevolmente e immediatamente gli si offrono quando si vale delle lingue antiche. Tuttavia nel caso particolare del Poliziano non è affatto da escludere che abbiano notevolmente contribuito a questa interruzione le vicende biografiche, che, in rapida e drammatica successione, turbano, tra il 1478 e il 1480, il corso finora così placido della sua esistenza, e pongono bruscamente il poeta di fronte a quella dura e dolorosa realtà dalla quale egli nella vita e nell'arte aveva finora cercato di sottrarsi. Quanto profondamente il suo animo di letterato fragile e indifeso di fronte ai colpi della fortuna rimanesse impressionato dalla tragica esperienza della congiura dei Pazzi, in cui Giuliano fu ucciso e Lorenzo ferito, e, più ancora, di fronte ai pericoli della successiva guerra contro Sisto IV, si scorge chiaramente sotto il velo dell'umorismo, nella famosa lettera scritta a Lucrezia Tornabuoni il 18 dicembre del 1478: "Io mi sto in casa in zoccoli e in palandrano, che vi parrei la malinconia se voi mi vedessi...; e non fo né veggo né sento cosa che mi diletti, in modo mi sono accorato, questi nostri casi! e dormendo e vegliando, sempre ho nel capo questa albagia... Rimangomi solo, e quando sono restucco dello studio, mi do a razzolare tra morie e guerre, e dolore del passato e paura dell'avvenire"(cfr. Del Lungo, Prose volgari inedite ecc., pp. 67-68). É probabile che proprio lo sconvolgimento suscitato in lui dalla triste e insicura situazione, abbia acuito i suoi dissensi con l'aspra e nervosa Clarice, moglie del Magnifico, la quale, già prevenuta contro gli spregiudicati metodi educativi del giovane precettore, non esita, dopo un litigo più violento, nel maggio del 1479, a cacciarlo di casa; e abbia poi provocato la sua rottura con lo stesso Lorenzo, che pure in un primo momento aveva cercato di riconciliarlo con la moglie adirata. Non è del tutto chiaro il modo con cui avviene questa rottura. Certo è che il Poliziano non risulta, come si attenderebbe, tra gli accompagnatori di Lorenzo nella missione del dicembre 1479 a Napoli, che doveva concludersi con l'accordo tra il Magnifico e re Ferdinando. Ma fu il Poliziano a rifiutarsi di accompagnare il signore fiorentino in questa missione, che appariva a tutti, anche se in realtà preparata diplomatica-mente, molto pericolosa; ovvero fu Lorenzo, probabilmente seccato da qualche imprudente discorso del letterato impaurito, a lasciarlo deliberatamente in disparte? Non contribuisce comunque a migliorare i loro rapporti l'improvvisa partenza dell'A. da Firenze per un viaggio che, attraverso varie peregrinazioni per l'Emilia, la Lombardia e il Veneto, lo porta a Mantova, presso il cardinale Francesco Gonzaga. Per quanto l'esule si pentisse presto del suo atto e inviasse appassionate suppliche per essere richiamato, soltanto grazie ad autorevoli intercessioni e dopo vari mesi, nell'agosto del 1480, gli è concesso di tornare a Firenze.

La sua situazione presso Lorenzo, però, non può essere più quella di un tempo: e se il Magnifico gli riaffida l'educazione di Piero e se gli ottiene, fin dal novembre del 1480, la cattedra di eloquenza latina e greca presso lo Studio fiorentino, non lo accoglie più in casa sua come familiare e segretario privato. È difficile stabilire fino a che punto questo mutamento di rapporti abbia influito sullo stato d'animo del Poliziano. Certo è che, dopo il ritorno a Firenze, tanto la sua vita quanto la sua attività letteraria subiscono una svolta sensibile, caratterizzata da una specie di ripiegamento interiore, che si traduce, se non in una "conversione" religiosa o filosofica, impossibile per un temperamento come il suo, in un più esclusivo e consapevole raccogliersi nell'operoso otium degli studi letterari. Questo nuovo orientamento si riflette, sul piano biografico, nell'impegno con cui l'A. si dedica all'insegnamento presso lo Studio fiorentino, dove accorrono per ascoltare le sue lezioni discepoli da tutta Europa; nella sua riluttanza a muoversi da Firenze, da cui si allontana solo due volte, nel 1488, quale componente dall'ambasceria fiorentina a Innocenzo VIII, e nel 1491, per un viaggio a Bologna, Padova, Venezia allo scopo di ricercare codici per la biblioteca di Lorenzo; nel compiacimento con cui si rifugia, appena gli è possibile, nel tranquillo ritiro del "rusculum faesulanum" donatogli da Lorenzo: nel rinsaldarsi della sua amicizia col Ficino e soprattutto con Pico della Mirandola. Anche i maneggi più volte rinnovati durante questi anni, specialmente dopo la morte di Lorenzo, per entrare nella Curia romana sono dovuti non soltanto alla sua ambizione, ma anche e soprattutto al desiderio di procurarsi una situazione tranquilla e sicura sotto ogni aspetto, in cui poter coltivare, senza più alcuna preoccupazione, quelle lettere che sono, come egli scriveva proprio ad Innocenzo VIII, "pacis alumnae". Quanto gli ultimi anni della sua vita fossero concentrati negli studi, appare anche dalla natura delle polemiche, tutte di carattere letterario, che egli ebbe a sostenere con il Marullo, con Bartolomeo Scala e con Giorgio Merula. Un tempo si credeva che la prima fosse nata da una comune passione dei due poeti per la bella e dotta Alessandra Scala; ma, come si può arguire dagli epigrammi del Marullo (quelli del Poliziano sono andati perduti), la vera causa fu la rivalità letteraria. Parimenti, se la polemica con lo Scala degenerò poi in una gara di velenose accuse anche di carattere privato, essa trasse, in realtà, origine da discussioni su questioni grammaticali. Ancor più significativa la contesa col Merula, nata in margine ai Miscellanea,nei quali l'umanista alessandrino aveva annunziato di aver trovato errori e plagi molteplici.

Ma il nuovo stato d'animo del Poliziano, dopo la crisi del 1478-1480, si riscontra ancor più chiaramente nella direzione che prende la sua carriera letteraria, e prima di tutto nella parte preponderante che in essa assume un'attività riflessa come la filologia, intesa nel senso che si è precisato, quale mezzo per ricostruire il mondo classico nella sua verità storica ma anche e soprattutto per esplorarne le zone e le questioni linguistiche più inconsuete e difficili. Documenti di questa intensa attività filologica sono soprattutto i Miscellanea (1489), raccolta di cento discussioni intorno a questioni testuali e interpretative; ma ad esse bisogna aggiungere parecchie lettere latine, le note marginali apposte a non pochi codici, fra le quali di singolare importanza quelle relative alle Pan-dette;e inoltre alcuni zibaldoni, ancora in gran parte inediti, che contengono estratti e appunti per i corsi fiorentini e materiali per una nuova centuria di discussioni, che il Poliziano progettava di far seguire ai Miscellanea.

Notevole è in tutti questi scritti la varietà dei campi su cui spazia l'indagine filologica, che non si limita alla letteratura propriamente detta, ma trascorre da testi di storia, di politica, di giurisprudenza ad opere di architettura, di botanica, di medicina e persino di culinaria. Tale interesse del Poliziano per discipline ed argomenti relativi alla vita civile e quotidiana conferma come egli tenda sempre a muoversi su un piano tutto umano e terreno: ma la sostanza di questo interesse non consiste, a ben guardare, in un gusto concreto di quelle attività pratiche, in un impegno vivo di giovare alla società, quanto piuttosto nel compiacimento aristocratico di dispiegare la sua dottrina nei campi più vari e, più ancora, di scoprire, illustrare e assaporare tutta una serie di voci e di espressioni letterariamente inedite o rare. In tal senso dovrà essere inteso anche il volgersi del Poliziano, dopo il 1490, verso lo studio di testi filosofici e, in particolare, di Aristotele. Come infatti è testimoniato da alcune prolusioni (il Panepistemon,la Lamia e le due intitolate Dialectica),non èestranea a tale studio una concezione dell'attività speculativa, e in particolare della dialettica, meno "pura", più umanamente funzionale di quella dei neoplatonici; ma l'atteggiamento che prevale è ancora il gusto di affrontare, come l'autore stesso dichiara, "testi alquanto spinosi e inviluppati da molte difficoltà di contenuto e di forma" (cfr. Le Selve e la Strega,ed. De Lungo, p. 226).

Non meno interessanti a documentare l'orientamento studioso e riflessivo dell'A. maturo sono non poche pagine da lui dedicate, nei suoi scritti posteriori al 1480, a problemi di estetica e di critica letteraria: le discussioni intorno allo stile latino in alcune lettere ad Alessandro Cortesi e a Bartolomeo Scala e nella prefazione dei Miscellanea;e i giudizi critici contenuti nelle prolusioni in prosa su Omero, su Persio, su Svetonio e su Stazio e Quintiliano, e in quelle più note in versi che l'autore, riprendendo un titolo staziano, chiamò Sylvae:la Manto (1482), dedicata alla poesia virgiliana in genere; il Rusticus (1483), introduzione ai poemi georgici di Esiodo e di Virgilio; l'Ambra (1485),intorno ad Omero e alla sua poesia; e i Nutricia (1486), una specie di storia per generi delle letterature antiche, con qualche cenno a Dante, al Petrarca e al Cavalcanti e un elogio finale di Lorenzo. Non mancano in queste pagine spunti esteticamente nuovi ed acuti, in particolare quando l'A. difende contro i pedissequi imitatori la libertà e la originalità dell'artista; né penetranti interpretazioni critiche, specialmente degli scrittori latini, a lui così congeniali, dell'età argentea. Ma esse importano, soprattutto, come documenti di un personalissimo gusto, come teorizzazione ed esemplificazione critica di quella poetica della "dotta varietà", che egli aveva già realizzato artisticamente nelle sue prime opere. Sotto questo punto di vista deve essere intesa e valutata in particolare la posizione che il Poliziano assume riguardo alla questione dello stile latino, il suo cosiddetto eclettismo anticiceroniano, che al culto di Cicerone, sia quale modello di civile conversazione e di oratoria politica sia come esemplare di simmetrica concinnitas,oppone l'ideale di uno stile fermentato da una "recondita erudizione", da "molteplici letture", da una "pratica lunghissima", di uno stile, cioè, ottenuto mediante una contaminazione di forme e di immagini variamente e liberamente attinte da tutto il patrimonio della latinità e specialmente dagli arcaici e dai decadenti.

Se la filologia, l'estetica e la critica sono le forme in cui si manifesta prevalentemente il nuovo stato d'animo del Poliziano, non manca, però, in quest'ultima fase la poesia, una nuova poesia, la cui ispirazione appare meno spensierata, più studiosamente raccolta e meditativa di quella delle opere giovanili, e la cui tecnica, pur mantenendosi fedele al principio della "dotta varietà", della "squisita irregolarità", rinuncia alle avventure estreme della giovinezza, accostandosi anche a modelli come Virgilio e Orazio, e tende volentieri ad esercitare e insieme a moderare il suo estro piuttosto nelle forme distese della prosa. Indizi chiari di questo nuovo orientamento si profilano già nelle opere composte durante il critico biennio 1478-1480. Alle tragiche vicende di quel periodo alludono chiaramente quasi tutti gli scritti latini del tempo, dalla saffica a Gentile de' Becchi (1478), che traduce in immagini orazianamente nitide l'"accidiosa" malinconia del poeta, al Pactianae coniurationis commentarium (1478), drammatico racconto in stile sallustiano, alla traduzione del Manuale di Epitteto (1479), dedicata a Lorenzo quasi medicina spirituale delle presenti inquietudini, e composta in uno stile secco e nervoso. A sua volta la Favola di Orfeo,breve azione teatrale composta a Mantova nel 1480, mostra, rispetto alle Stanze,qualche significativa diversità. Simile a quello delle Stanze è il tema della favola: anche qui di fronte ad un sogno di felicità terrena si accampa la forza ineluttabile della Fortuna e della Morte, anzi l'urto è senza dubbio più aspro e tragico: ma, quasi per reagire più vivacemente a questa asprezza e tragicità, il Poliziano non si limita a trasfigurare miticamente, come già nelle Stanze,una vicenda reale, bensì sceglie come argomento direttamente un mito, per di più, ormai letterariamente consacrato e stilizzato come quello di Orfeo e di Euridice. Sarebbe, tuttavia, eccessivo caricare di alte responsabilità poetiche un componimento come l'Orfeo:sia perché scritto, secondo la confessione dell'autore, "in tempo di due giorni, intra continui tumulti", sia per altra ragione, nel complesso vi si nota una certa meccanica gracilità di costruzione e provvisorietà stilistica. La poesia sarà piuttosto da cercare nei particolari: nella "canzone" di Aristeo, melodiosa contaminazione di echi bucolici e di motivi di rispetti popolari; in qualche immagine di colore tra stilnovistico e virgiliano, che disegna Euridice come un'ideale sorella di Simonetta e di Albiera; e infine nell'inno delle Baccanti, singolare e sapiente combinazione di ritmi aspri ed irregolari. Come una reazione, sia pure su un altro piano, alle inquietudini e alle angosce del biennio critico, vanno interpretati i Detti piacevoli,composti fra la fine del 1477 e il principio del 1479, e recentemente restituiti dal Folena, con ragioni convincenti, al Poliziano; una serie di "aneddoti, facezie, favole, detti arguti e infi

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