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Aleardo Aleardi

Persona

insegnante

, Verona / , Verona


Biografia   

Poeta, nato nell'aprile 1812 e morto nel luglio 1878 a Verona. Scrittore di forte ispirazione patriottica, fu inviato speciale di Manin a Parigi per la causa di Venezia. Fu carcerato a Mantova nel 1852. Dal 1864 a Firenze come docente di Estetica all'Istituto di Belle Arti.

fonte: sbn musica

ALEARDI, Aleardo. - Aleardi Gaetano Maria (assunse più tardi il nome con cui divenne famoso, Aleardo) nacque a Verona il 14 nov. 1812 dal conte Giorgio e da Maria Canali: dal padre accolse, forse, certo spirito aristocratico, che conservò nella vita e negli ideali, e dalla madre quella educazione del cuore che lo fece sensibile alle miserie degli infelici e schiettamente democratico in politica. Fanciullo malinconico, poco vivace nei primi anni di studio, si aperse poi ad entusiasmi improvvisi e diversi per la letteratura, la scienza, la vita sportiva. Frequentò di contraggenio i corsi di legge all'università di Padova, conducendo spensierata vita studentesca in compagnia di amici carissimi, tra i quali il Fusinato e il Prati: si accese ancor più d'amore alla poesia e d'amore di patria; e la donna, la natura, la patria, la poesia, furono le costanti passioni della sua esistenza. Dopo la laurea tornò a Verona, dedicandosi a quella vita di libero studioso e di artista, che gli fu sempre dolorosa per le ristrettezze finanziarie e per la solitudine cui lo costrinse, ma che corrispondeva alla sua nativa vocazione; per questo non volle mai formarsi una famiglia, alla quale l'avrebbe indotto la nativa affettuosità del carattere. Negli studi, incominciò a interessarsi di cose dantesche e di critica d'arte, intraprese qualche viaggio d'istruzione; per la poesia, concepi in questo tempo i primi lavori dati alle stampe e i primi disegni di altre opere, che verranno alla luce nella redazione definitiva una decina d'anni più tardi.

Nei suoi primi componimenti risentiamo con facilità l'influsso del Manzoni e del Foscolo. Ne Il matrimonio (1842) canta il diffondersi del vincolo coniugale nelle varie civiltà, nell'Arnalda di Roca (1844) l'eroismo di una fanciulla che sacrifica la vita all'onore e all'amore: un lungo poemetto storico, in cui non mancano scorci di taglio drammatico, pennellate di colore, note d'affetto, ma in cui sono anche enfasi ed ingenuità giovanili, con quella tendenza allo scenografico, che sarà poi caratteristica nella fantasia del poeta. In questo periodo egli compone un poemetto storico, Il Bragadino,che fu poi distrutto per motivi politici, concepisce un altro poema, Il Mosé,a esaltazione di Pio IX, e quei Canti della campagna romana che rielaborerà poi ne Il monte Circello.Ma ottiene il primo successo con le Lettere a Maria (1846): due lettere in versi sciolti, in cui il poeta propone un platonico amore, in nome delle comuni sofferenze, a una cara amicizia, e parla, del destino umano, dell'immortalità dell'anima, dei motivi per cui crede in essa. Le Lettere a Maria ebbero fortuna perché corrispondevano a quella affettuosità del sentimento tanto celebrata in altri poeti, come ad esempio in Lamartine, e a quell'ansia di certezza, d'infinito, di religiosità che costituiva uno dei motivi fondamentali della temperie romantica. Ma più di un tono qui non convince. Non che l'A. non fosse sincero, perché fu onesto e galantuomo quant'altri mai: ma la sua stessa debolezza di carattere, l'indole affettuosamente mite e ingenua lo inducevano a un manierismo sentimentale, che era della sua natura ancor prima che della sua poesia. Questa indefinitezza sentimentale fu anche, in lui, incertezza di pensiero e incertezza di gusto: fedele alla teoria romantica delle due arti, l'arte olimpica e l'arte sentimentale, e avverso per evidenti motivi contenutistici all'Arcadia, al Seicento, alla mitologia, proprio attraverso questo contenutismo volle nell'arte non solo un forte impegno politico, ma anche interessi di cultura di scienza e di filosofia: e pure non mancò di avvertire altre volte che la forma è connaturata al pensiero e che l'arte dovrebbe avere in se stessa il proprio fine. Così pure, a volte, affermò che l'arte è pazienza e sapienza, e mai seppe soffermarsi sui suoi versi, con lavoro di lima: non appena scritti, gli venivano in uggia. Anche la sua posizione verso il realismo è assai dubbia, perché egli afferma che oggetto dell'arte è la verità, ma una verità "cinta di stelle": così che nella sua opera la tendenza al reale si affaccia con improvvise disarmonie tra i sentimenti e gli affetti più astratti e ideali.

Il poeta stesso fu sempre consapevole di questa sua incertezza teorica, di questa sua debolezza nativa, che lo portava alla dispersione o all'artificio che cela la dispersione: volle scusarsene, attribuendo alla censura la colpa di certe oscurità, ai tempi in cui visse la mancata ispirazione di lunghi periodi, ma non mancò poi, nei rapporti privati con gli amici, e tra essi il Manzoni e il Martini, di confessare i li-miti della sua opera, che con scorato pessimismo credeva tutta destinata all'oblio in breve volger di tempo: e riconosceva solo al Carducci il merito di aver scelto la via giusta.

Invero, si osservano nella vita dell'A. strani periodi di assoluta incapacità creativa, che d'altra parte dimostrano come egli componesse soltanto quando se ne sentiva l'ispirazione. Periodo infecondo è, ad esempio, quello successivo trascorso a Parigi, inviato in missione speciale da Manin per sostenere la causa di Venezia, nel 1848: ma la delusione politica fu talmente forte che il poeta meditò persino di emigrare in America, e ne fu dissuaso soltanto dal pensiero della sorella e della patria che avrebbe dovuto lasciare forse per sempre. Dopo l'esperienza politica, ritorna a Verona, ove conduce vita triste e solitaria, languendovi "come una panetana in ombra malsana", sorvegliato dalla polizia che, nel 1852, in occasione dei processi di Mantova, lo arresta e lo rinchiude nella fortezza di quella città. Liberato dopo dura prigionia, ritorna a Verona, ove affronta altre dolorose esperienze: delusioni amorose, malattie, l'impressione di aver fallito nella propria vita e nella propria arte. Tra le poche liriche di questo periodo ricordiamo una novella in versi, Francesca da Rimini,e poesie composte per il tradimento di una donna, i suoi "fiori del male", come fu detto: ma si tratta di ben povera cosa. Per non trattare temi politici, per i quali era sempre in sospetto della polizia austriaca, compose anche un idillio, Raffaello e la Fornarina (1855),in cui affermava simbolicamente il diritto dell'artista all'amore in nome delle sue creazioni di bellezza: un componimento, insomma, che nella sua concezione nasconde venature di poetica predecadente, ma su cui grava un falso realismo biografico di cattivo gusto, con episodi e battute leziose, mentre il poeta sembra farsi paraninfo tra il pittore e la sua ispiratrice. La vena poetica riprende, invece, improvvisamente vigore poco dopo, intorno al 1856: e sono questi gli anni in cui l'A. compone le sue cose più belle. Riprende e rielabora alcuni canti già composti, e pubblica così Il Monte Circello,in cui immagina di scorrere dall'alto la campagna delle paludi pontine, e ne trae occasione per quadri dolorosi (i mietitori condannati alla malaria) o per delicate e insieme colorite rievocazioni storiche (Corradino e il castello d'Astura): due liriche tra le più belle, brani realmente degni, come comunemente avviene, di una raccolta antologica esemplare. Ristampa integralmente anche le Prime storie (1857; aveva incominciato a lavorarvi dopo il 1846) in cui, rifacendosi alle prime vicende dell'umanità e quindi alle varie fortune della nostra terra, ne trae auspicio per i migliori destini. É una raccolta di quadri staccati, in cui mancano assolutamente il senso e la prospettiva storica, ma in cui sono forti visioni di vicelide bibliche, quadri ispirati di nature vergini ed esotiche: una nuova esperienza, e forse la più sostenuta, della poesia aleardiana. Compone anche Le antiche città italiane marinare e commercianti (1856), in cui il quadro storico si fa assai più concreto e fedele, con grande vantaggio dell'unità compositiva: e anche qui non mancano versi caldi e ispirati come, a esempio, quelli dedicati a Pisa.

Fiorisce in questo tempo qualche tentativo di satira, e la sua più impegnata poesia politica, che vedrà la luce, tuttavia, più tardi, dopo una nuova dolorosa esperienza. Compone alcune notissime liriche, Le tre fanciulle, I tre fiumi, Triste dramma,che verranno raccolte alcuni anni dopo sotto il titolo di Canti patrii:questi canti, infatti, non vennero pubblicati allora perché, nel giugno del 1859, nell'improvviso aggravarsi della situazione militare, egli fu nuovamente arrestato e inviato a Josephstadt, in Boemia, ove ebbe molto a soffrire, ma ove rimase fortunatamente non a lungo, per la rapida conclusione della guerra. E si tratta di un periodo sterile per la poesia, fatta eccezione per qualche breve componimento non privo di grazia (Sehensucht).Ritornato in Italia, si stabilisce a Brescia, ove dimora per quattro anni: e ritorna alla poesia politica, con I sette soldati (1861), racconto delle vicende di sette militari austriaci morti in battaglia e nativi di lontane regioni, e con il Canto politico (1862), in cui, anticipando certa poesia carducciana, condanna con insolita veemenza quanti si oppongono a che Roma divenga capitale d'halia. Riceve intanto anche i primi riconoscimenti ufficiali: gli si offre la cattedra di letteratura italiana all'Accademia di Brera, già tenuta dal Panni, viene eletto deputato e presidente dell'ateneo bresciano. Ma uno strano timore a parlare in pubblico e uno stanco sentimento di scoratezza, di sfiducia, lo assale ora: rinuncia alla cattedra. Con gli ultimi canti politici (I fuochi sull'Appennino,1864) si spegne ormai anche la sua vena. Non gli rimane che raccogliere in una edizione unica tutta la sua produzione, alla quale fa precedere due pagine autobiografiche sulla natura della sua vocazione alla poesia: una confessione affettuosa e dimessa, anche manierata, non una dichiarazione squillante.

Il poeta, nel 1864, si trasferisce a Firenze, ove accetta la cattedra di estetica all'Istituto di Belle Arti: e qui rimane per il resto della sua vita, preparando con cura e non senza fatica i corsi ai quali accorre un pubblico sempre più numeroso e sempre entusiasta. In questo l'ultimo periodo della vita dell'Aleardi. Egli ha onori e fama, viene eletto senatore nel 1873, tiene conferenze e discorsi che gli offrono plausi e consensi, crea ora di sé quel mito di poeta salottiero, che non dispiace a certa ingenua civetteria della sua anima semplice, ma che susciterà poi aspre reazioni: e tra i consensi incominciano proprio ora anche gli attacchi più aspri. E, sopra tutto, la sua esile vena poetica ormai tace: neppure la terza guerra d'indipendenza gli ispira il canto desiderato. Ha il solo conforto di qualche amicizia gentile; ormai sopravvissuto a se stesso, e consapevole di questo, muore improvvisamente a Verona il 17 luglio 1878. [...]


fonte: Dizionario Biografico degli Italiani, voce a cura di Ettore Caccia (treccani.it)

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